N.B. In questo Blog non si parla, se non accidentalmente e per dirne peste e corna, di Trendy Glamorous Fashion Restaurants, Non troverete recensioni dell'ultima borsetta firmata, della tale poltrona di design o 10 post sulle ciabatte più IN per andare in Beauty Farm.
Ma se:
- Il Food lo chiamate ancora cibo
- Il vino lo bevete senza prima far ruotare ossessivamente il bicchiere per 5 minuti
- Al ristorante ci andate solo per mangiare bene e stare con gli amici
- Le guide gastronomiche le leggete gratis in libreria
- Avete comprato almeno una volta le mutande all'Oviesse

Forse questo Blog fa per voi.

giovedì 10 aprile 2008

NUDI & CRUDI

Il Crudismo Progenetico: le virtù dell' Istintoterapia


Dal paleolitico inferiore ad oggi sono cambiati oltre ai sistemi di cottura anche le abitudini dell’uomo e il suo approccio al cibo.
Intanto la scoperta del fuoco altera la cons
istenza e il sapore dei cibi rendendoli più digeribili, elimina batteri e virus e animali (per esempio le uova dei parassiti tenia solium e tenia saginata) presenti nel cibo, trasforma alcune sostanze tossiche rendendo commestibili, cibi altrimenti nocivi: in buona sostanza per la prima volta l’homo erectus si allunga la vita.

Oggi, dopo quattromilioni di anni l’ “homo anoressicus “ se la accorcia!!
Con sistemi di cottura ad altissima tecnologia, wock a induzione e forni a convezione per mozzarelle di bufala alla diossina, mucche pazze, polli aviari allo spiedo e quant’ altro sia riuscita a produrre una società oramai irrimediabilmente
industrializzata e tecnologica, l’homo anoressicus si uccide ogni mattina a colazione con un biscottino al titanio da inzuppare in un caffe OGM e finire con un toast al prosciutto”cotto di PLAGA “.

Non sottovalutiamo la spremuta d’arancia in cui la stessa etichetta racconta ,mentre ancora si strofina gli occhi, che sta bevendo per 12% il ricordo del gusto delle arance per il 24% additivi chimici e altre diavolerie e per il restante 64 % acqua di falda( magari quella del napoletano)…..ah che bello cafè!!(nulla contro i napoletani ma queste “ecoballe” anche se involontariamente finiranno pur da qualche parte , enfisemi partenopei inclusi).

Quale la soluzione?

Qualcuno è dell’avviso che bisognerebbe tornare indietro di 4 milioni di anni e rifare tutto da capo (date un occhiata qui se non ci credete, io ho “annusato questo sito”…e non mi e’ piaciuto per niente http://www.aerrepici.org/Istintoterapia.htm )
Ancor meno la sua home page : http://www.aerrepici.org/terapie.htm
Sarei dell’idea invece di cambiare semplicemente abitudini e di evitare tutti gli eccessi in un senso e nel suo opposto, sembra che questa (in)civiltà non voglia spingerci a fare altro che eccedere , eccedere in tutto, eccedere noi stessi saltando l’ostacolo del conoscerci e se mai migliorarci, superarci sarebbe troppo.

Aprire gli occhi per cominciare, e qualche volta denunciare!

domenica 6 aprile 2008

"LA CUCINA POVERA"... (DI SPIRITO?)





Quella
salentina è una cucina povera, fatta di prodotti genuini: il pane casereccio cotto nei forni in pietra, l’olio per condirlo, un piatto di purè di fave , cicorie selvatiche …Prodotti indubbiamente poco costosi, tante verdure, il pesce (freschissimo, data la vicinanza ai due mari) preparato in modi semplici.Una cucina che è sinonimo di rispetto per la materia prima, le carni esibite in macelleria anch’esse senza voli di fantasia: il maiale per il sugo con cui condire le orecchiette, la salsiccia paesana, gli involtini di interiora di agnello per la brace, la carne equina (poco costosa anch’essa) per lo spezzatino (i famosi “pezzetti” con sugo piccante) il “muscolo”…per le fettine di tutti i giorni.
Va da se dunque l’appellativo “povera” ma mi risulta difficile però pensare che nel Salento in passato ci fossero solo i contadini: e i padroni delle loro terre?
E latifondisti?
Nei loro ricevimenti a palazzo erano soliti servire orecchiette e purè di fave e cicorie o avevano altre abitudini alimentari?
Da una serie di ricerche viene fuori che le famiglie della borghesia salentina erano solite avere nella servitù uno o più cuochi siciliani o partenopei,
assoldati per preparare manicaretti ben diversi dalla cucina povera del volgo.
I cavalli di battaglia di questa cucina borghese erano il sartù di riso, la galantina di pollo, l’arrosto alla genovese, la royal… piatti raffinati di artusiana memoria di cui non c’è più traccia nei ristoranti del Salento.

E da una riflessione più attenta è facile concludere che in tutte le regioni d’Italia ci sia una “cucina povera” ma non “povera di spirito” come quella salentina.
Un esempio può
essere il semplice “uovo al tegamino” su cui i toscani da tempi immemorabili affettano il loro tartufo.
Piatto povero, ma condito di fantasia e naturalmente raffinato.
Cos’è successo in puglia e nel Salento?
Perchè nessuno ha mai provato ad affettare del tartufo sul purè
di fave???
Visto che ora di tartufo se ne trova in abbondanza anche nelle campagne del leccese.
Ma soprattutto dove sono finiti i piatti dei signori? Spariti!
Si è scelto di dire che la cucina salentina è povera e di portarla avanti così.
Con grande gioia per le massaie improvvisatesi ristoratrici.

Qualcuno dice (e non mi sento di dargli torto) che la cucina salentina nei ristoranti non esiste: si mangia bene solo a casa di qualche massaia.
Malgrado spuntino come funghi trattorie caserecce sembra proprio non si riesca ad individuare una cucina (tipica appunto), forse perché
la tipologia dei piatti risulta un po’ astratta, ridondante, sempre uguale a se stessa e con pochi voli di fantasia.
Per non parlare dell’ eccesso di carne d’angus nei menù dei più rinomati ristoranti salentini!
Angus salentino???



Ma si sa, la globalizzazione a volte acceca e ci ritroviamo tutti schiavi dell’angus, specialmente noi salentini che non abbiamo idea di cosa sia veramente una bistecca o di un pezzo di carne qualsiasi che sia stato cotto bene (non necessariamente bencotto, che è un’altra cosa) a dispetto della vera cultura della carne , della sua frollatura ecc..

Tutta la cucina salentina potrebbe ridursi in una degustazione unica… ci proviamo

Entrèe

Pittule calde ( storicamente era un piatto costituito da pasta lievitata e fritta tipico del natale, di S.martino e dell’immacolata) oggi lo troviamo in tutti i ristoranti salentini in tutti i periodi dell’anno, sempre lo stesso: le pittule

Oppure le friseddhe d’orzo o di grano condite (nella migliore delle ipotesi) con pomodori di pendola e sott’oli piccanti.

Antipasto

Misto mare e terra (giustificabilissimo visto che l’antica Messapia si estende tra due mari ed ha la fortuna di aver sempre salvaguardato “l’orticello genuino”) ma abbondante troppo abbondante ovunque i ristoratori fanno a gara.
E quindi si inizia con peperoni fritti, fagioli, polpo in “pignata” (varie preparazioni in pignata nella cucina salentina: le massaie avvicinavano questo recipiente di terracotta al fuoco del camino e andavano a lavorare nei campi, al ritorno il fuoco lento del camino aveva fatto il suo dovere, oggi la pignata è una padella di alluminio su una cucina professionale, ne è rimasto solo il nome), le fritturine di mare e di terra, pesciolini fritti (fracaglia) e crocchette di patate e pecorino (ovviamente sardo) le immancabili polpettine di cavallo, e poi i
carpacci di spada, di salmone (???), le alici marinate, un assaggino di parmigiana (quella salentina con polpettine e uovo sodo e mortadella al suo interno), e poi ancora del formaggio fresco non deve mancare e le focaccie con le verdure, con la cipolla…la peperonata… le cozze, in sautèe e gratinate…la pitta di patate…
L’immancabile insalata di mare e le crudità…vongole, fasolari, tartufi di mare ricci e ostriche di profondità crude…per concludere l’antipasto…
Inutile dire che a questo punto ci vorrebbe un bel caffè ma siamo solo all’antipasto e fidatevi più è abbondante e più
il ristorante è apprezzato dal salentino medio.
Gli abbiniamo un vino a questo antipasto? Io non credo, le mie papille impazzite non riescono a
pensare ad un vino che possa avvicinarsi a tanti sapori differenti, ma direi un rosato, la puglia è terra di rosati …

La degustazione potrebbe continuare con tre piccoli assaggi per la terra, come prima portata:

ciceri e tria
sagne n’cannulate cu li pimmidori scattarisciati
orecchiette con le polpettine di cavallo (e dagli…) o col sugo di maiale
variante”cu l’agnellu fuciutu” con l’agnello che in realtà non c’è ma ne è rimasto l’odore nel sugo di pomodoro (furbizia contadina…)

sconsiglio la parmigiana, potrebbe essere fatale una mattonella di quell’assaggino dell’antipasto, e sconsiglio anche la lasagna alla leccese, anch’essa senza la “volgare” besciamella ma con il solito uovo sodo, polpettine e l’immancabile mortadella, qui chiamata porchetta (non si è mai capito perché..)

La degustazione potrebbe iniziare invece con tre piccoli assaggi dal mare, come prima portata:

spaghetti con le cozze (in bianco o rosso)
orecchiette con fagioli e cozze
e il mitico risotto alla pescatora (sulla vera cucina dei pescatori diremo poi)
Tajeddha, ovvero tiano di zucchine, riso cozze e patate (stesso principio della pignata, con il riso che entra crudo e cuoce lentissimo con il resto.)

Per i secondi dalla terra:

Pezzetti di cavallo
Agnello con le patate
Grigliata mista (dove non deve mancare l’elemento caratterizzante anche se lo troviamo identico nella cucina umbra: l’involtino di frattaglie di agnello)

Per i secondi del mare

Spigole e orate alla griglia o in manto di patate
Pesce azzurro in quantità, spesso fritto: la paranza.

Dolci di pasta di mandorla (meno dolce e più gustosa della martorana siciliana), spumoni, pasticciotti leccesi, mustazzoli, pitteddhe con la perata, dolcetti della sposa, cupeta, torte e crostate varie.

Non mi viene in mente altro che sia caratterizzante della cucina salentina e soprattutto molte di queste portate entrano a far parte della tradizione italiana e non assimilabili a quella prettamente salentina, come ad esempio la grigliata mista, il risotto alla pescatora, o il banale, anche se buono, spaghetto con le cozze o certi accostamenti tra mare e terra.
Rimangono le orecchiette e il purè di fave con cicorielle
i pezzetti di cavallo e qualcos’altro: troppo poco per parlare di una vera grande tradizione di cucina regionale.
Per esistere una cucina tipica ha bisogno di una cultura alla base che la supporti e non di un invenzione mediatica da vendere ai turisti: il Salento è stato preso, confezionato e venduto in tutto il mondo in troppo poco tempo e questi sono i risultati.
Prima che salti fuori l’”angus salentino” (bovino nostrano nobilitato da un nome trendy nella maggior parte dei ristoranti… ) quindi, facciamo ricerca, cerchiamo di capire da cosa nasce la nostra cucina e cosa ci siamo persi per strada.
Una volta mi trovai ospite di alcuni pescatori
a pranzo: mangiavano la “ventricella”.
Avendo prodotto quantità industriali di tonno sott’olio per il loro ristorante riutilizzavano frattaglie, cuore fegato e bottarga dei tonni soffritte con della cipolla e una foglia di alloro e un pizzico di sale. Uno spezzatino di interiora davvero sublime!
Così come, in un'altra occasione, vidi dallo stesso pescatore prendere una seppia ancora viva , togliergli solo
l’osso e lasciare all’interno tutte le interiora e poggiarla su una griglia nel forno.
A cottura ultimata, tagliarla
in pezzi grossolanamente rompere nel taglio la vescica col nero di seppia e condirla con olio, prezzemolo e un po’ di sale.
Altra squisitezza….quando gli chiesi il perché queste pietanze non venissero messe sul menù mi rispose che non sarebbero state capite dalla tipologia di clientela di quel ristorante, che quella era la cucina per i poveri pescatori e, guardandomi allibito per la mia insistenza,
mi disse: “qui vogliono gli astici, le aragostelle locali, lo spaghetto con le cozze e l’immancabile piatto forte (per consumo medio davvero, vagonate a quanto pare) il cocktail di gamberetti…ah come lo facciamo noi!!!” Mi disse veementemente…
Mi resi conto dal suo sguardo e dal modo con cui portava avanti la discussione che quello a suo parere era un ristorante per “signori” (il classico ristorantone da matrimoni sul mare con 400 coperti, dove l’unica idea di qualità la esprime il pesce sul carrello, freschissimo, ma con attese estenuati, chiasso, comitive bambini scalmanati che corrono tra camerieri sudati e maleodoranti, pizze ai frutti di mare e cattivo odore di frittura stantia in tutto il locale).
Secondo lui, quelli non erano piatti adeguati ai palati sopraffini degli avventori del suo locale insomma.
Qualcosa di simile
pensavo c’è nella cucina spagnola: il calamaro intinto, anch’esso lasciato cuocere intero e con le sue interiora.
Pensavo alle dominazioni spagnole in puglia quindi, e ai segreti che ancora si possono nascondere dietro una cucina, e del perchè la cucina salentina non sia l’espressione, come quella siciliana, delle varie dominazioni, terra tra due mari, terra conquistata
e riconquistata e cento volte ancora da conquistare.
La ristorazione salentina ha visto il suo boom negli anni ‘80, i primi ristoratori avevano piazza facile, un mercato tutto da scoprire. Il secondo, effimero, boom economico seppur lentamente si
fece sentire anche nel Salento e per le classi un po’ più agiate la sortita al ristorante rappresentava l’abbuffata.
Il mangiare fino all’inverosimile…si andava al ristorante solo per l’occasione speciale, il matrimonio era una di queste e i ristoratori, approfittando della scarsa cultura culinaria degli avventori, scongelavano quantità industriali di pesce e lo vendevano per fresco e il pranzo nuziale era una sequela di pietanze senza alcun senso che spaziavano dal mare alla terra,
i primi porcini, (Salento terra di porcini???) i primi risotti (???) ogni “mangiata” era una scoperta per questo pubblico così incolto.
Via via si arriva ai giorni nostri, alcuni ristoratori sono ancora lì, non hanno modificato molto del loro modo di fare ristorazione hanno semplicemente trasferito i menù dei matrimoni di un tempo ai menù à la carte di tutti i giorni, aggiungendo un po’ di fumo negli occhi .
Continuano ad avere seguito a livello locale, avendo fatto tanti quattrini
sono oramai in politica e la politica aiuta sempre ad avere un ristorante pieno.
Trappole per sfortunati turisti e simbolo gastronomico di riferimento ancora oggi per la stragrande maggioranza del pubblico locale che disprezza (pensate un po’) i ristorantini tipici considerando appunto questi ultimi
come trappole per turisti…
In ogni casa del salentino medio c’è una mamma o una nonna che ancora sa cucinare un purè di fave meglio che al ristorante.!!!

Ah, Salento… terra di contraddizioni…

Ma allora mi chiedo, se la cucina salentina nei ristoranti non esiste, abbiamo forse perso un pezzo di cultura gastronomica rinnegando a tavolino la cucina dei padroni e tenendoci invece la cucina povera che raramente però apprezziamo fino in fondo?
Cosa offriamo di noi ai turisti? E a noi cosa piace davvero?
Per quale malinteso senso di colpa storico rinneghiamo l’opulenza borbonica delle tavole borghesi in favore del desco contadino, quando la Puglia non ha mai dato prova di una forte cultura proletaria come, ad esempio, in Emilia Romagna?
Se dovessimo scegliere un piatto, uno qualsiasi, qualcosa da mangiare, da degustare, che ci faccia sognare, cosa proporremmo a noi stessi e al turista?

Chiediamocelo.

Perché, se fossi toscano, risponderei senza pensarci: la ribollita o la pappa al pomodoro o le pappardelle al ragù di cinghiale, il maialino di cinta senese al forno, la panzanella, il baccalà all’isolana, ecc. ecc…
Troverei sicuramente qualcosa che mi contraddistingue,
che mi dice “sono quello che mangio”.
Perchè non mi sento rappresentato da nessun piatto della cucina pugliese, tanto meno da quella salentina nella fattispecie?
Sarà che le orecchiette con le cime di rapa (del barese), se pur buone, non possono rappresentarmi in quanto salentino e soprattutto diciamolo, non lasciano senza fiato?

PRESIDIATI DAI PRESìDI



MENU' DEGUSTAZIONE PER UNA SERATA TRENDY ED ECOSOSTENIBILE

Entrèe

10 Piccoli fingers food per l’aperitivo in piedi.

1) Schiacciata di rapa di Caprauna con cardo gobbo di Nizza Monferrato brasato su crema di peperone corno di bue di Carmagnola

2) tortino di riso di Grumolo delle Abadesse con Paletta di Coggiola, tinca gobba dorata del pianalto di Poirino con crema di moscato passito della valle Bagnario di Strevi.

3) polentina di Mais biancoperla con toma di Gressonay, Vezzena e salame casalìn dei contadini mantovani

4) mini costoline di agnello sambucano con Bella di Garbagna e con Macagn e mustardela delle valli Valdesi

5) cornucopia di violino di capra della Valchiavenna su Ur-Paarl, carpaccio di carciofo violetto di Sant’ Erasmo marinato nello stravecchio di malga dell’altopiano dei sette comuni

6) Crema di radic di mont con insalatina di fagioli di Balducco,Conio e Pigna con salsina all’aglio di Resia, Formandi frant, prestàt e pitina

7) tome di pecora brigasca con asparago violetto di Alberga, crema di pera cocomerina, e oca in onto

8) Tuma di pecora delle langhe con fragola di Tortona, crema di lonzino di fico e Signora di Conca Casale con puzzone di Moena.

9) castagna essiccata nei tecci di Coalizzano e Murialdo con mini tartare di Agnello di Zeri profumato al chinotto di Savona e Sciacchetrà delle cinque terre con sale marino artigianale di cervia e Salmerino del Corno alle Scale

10) fico secco di Carmignano arrotolato al lardo di Colonnata e oliva infornata di Ferrandina

Antipasti:

brodetto di gallina bianca di Saluzzo con rigaglie di gallina bionda piemontese
crostini di pane di patate della Garfagnana al profumo di sedano nero di Trevi

terrina di masculina da mugghia e pesche tardive di Leonforte su vellutata di pistacchi di Bronte e limone Interdonato

crema di lenticchia di Ustica con Bottarga di Favignana, cappero di Salina, capra girgentana e manna delle Madonie con Zafferano di San Gavino Monreale e Fiore sardo dei pastori


Primi piatti

Ravioli di grano saraceno della Valtellina con ripieno di testa in cassetta di Gavi in brodo di cappone di Morozzo

Riso di Grumolo delle abadesse con Morlacco del Grappa e coniglio da fossa di Ischia mantecato al latte di Vacca Burlina

Secondi Piatti

Millefoglie di vacca podolica del Gargano con sorbetto di cipolla rossa di Acquaviva e pesto di pezzente della montagna materana


Anguilla di Lesina alla brace con fava di Carpino e Anguilla marinata tradizionale di Comacchio con salsa all’ aglio di Vessalico.


Pre-dessert

Gelato al casizolu con vecchie varietà di mele piemontesi e vecchie varietà di pesche di canale con tegola croccante ai mieli di alta montagna


Dessert

Paste di meliga del monregalese


Piccola pasticceria e coccole

Susine bianche di Monreale sciroppate in vino di visciole, Fico dottato cosentino e Bella di Garbagna caramellati e moscato di saracena

…..

!

???

Tutti in ginocchio sui Ceci di Spello!


IL GARUM E CARAVAGGIO



Non ho mai pensato che con la cucina si possa fare arte, come vuole qualcuno.
Semmai che si possa far mangiare la gente a casa propria o al ristorante, cercando di farlo bene.
L'arte va lasciata agli artisti, se poi uno chef ha dei punti di contatto con l'arte (perchè ama l'arte o perché vi si dedica lui stesso con altri mezzi di espressione) non fa altro che dare valore aggiunto al suo lavoro: curerà al meglio la presentazione dei suoi piatti, farà ricerca di accostamenti di sapori e di effetti cromatici, sperimenterà nuove commistione con quelle sensazioni palatali e olfattive che possono scatenare (oppure no, se la sperimentazione non è sostenuta da talento e intuizione) quel “cortocircuito” di sensazioni che fanno di un cuoco un grande chef.
Ovvio che questo successo non avrà un valore assoluto, esattamente come nell’arte.
Un buon piatto è tale per la sensibilità di chi lo assaggia, certo, esistono dei parametri generalmente condivisi, ma non dogmi inconfutabili.
La zia Concetta è liberissima di non apprezzare una gelatina all’azoto, come il mio amico Michele potrà tranquillamente mandarmi a cagare dopo che gli ho fatto assaggiare un cappuccino di seppia e polvere di caffé.Nello stesso modo in cui la zia e il mio amico possono non apprezzare una mucca squartata ed imbalsamata di Damien Hirst .



Un'opera di Damien Hirst


Un piatto di Ferran Adrià



Ecco, forse in questo la cucina assomiglia all’arte: siamo liberi di non apprezzare, ma la nostra non-condivisione certo non impedirà a Damien Hirst o Ferran Adrià di esercitare il proprio diritto/dovere di sperimentare e provocare: l’utilità o meno dei loro sforzi sarà dimostrata soltanto con il tempo, una volta smorzati i clamori modaioli di biennali e bibbie gastronomiche.
Ma sto divagando, torniamo alla cucina dei comuni mortali e lasciamo l’empireo delle tre stelle Michelin per un attimo.
Dicevo, la figura dello chef è e deve rimanere quella del professionista qualificato, coscienzioso, leader nella sua cucina, maestro per i suoi secondi e commis di cucina, responsabile per sé e per i membri della squadra o "brigata", per usare un termine caro ai francesi che ancor più rimarca il rigore delle gerarchie e dell'assetto da battaglia in cucina.
Una figura di riferimento per igiene, cultura gastronomica, manualità, velocità di esecuzione, in grado di risolvere via via innumerevoli problemi del "servizio", capace di prendere decisioni importanti in tempi brevissimi, proprio come un generale sul campo (eh già....non muore nessuno, ma provate ad immaginare 200 nemici seduti dall'altra parte della trincea e quanto incida un solo minuto in più di cottura data a 200 spaghetti!!)





Un capo carismatico e creativo insomma, che modifica (e insegna a farlo) degli alimenti per dar vita ad altri alimenti, usa attrezzi del mestiere ed ingredienti per creare qualcosa che, diversamente dall'opera d'arte, sarà assaggiata, degustata, assimilata e digerita; non certo guardata, contemplata o fotografata.
Unico responsabile della buona riuscita di un convivio, tutto qui.
Poco di artistico insomma ma sudore sulla fronte e tanto spirito di abnegazione e sacrificio per un mestiere antico che regala soddisfazioni e frustrazioni nella stessa misura.
Lo chef può essere un buon artigiano quando l'ingrediente fondamentale della sua cucina è la passione. Può trattarsi di altissimo artigianato quando l' ingrediente segreto è un pizzico di anima.
Il resto è gusto individuale dell’ utente-fruitore, soggettività, salato o dolce, saporito o meno, bravo e complimenti o ...a me non piace.

Il resto è sale e pepe q.b.

SCELGO LO 014

Se è vero che, come diceva qualcuno, la vera arte è il mercato dell’arte, così la vera gastronomia risiede lì dove si è furbi, grandi comunicatori e portatori sani di pubblico pecoresco.
In buona sostanza non è lo chef artista o il più prosaico cuoco che fa il successo del suo locale ma una rete di pubblic
he relazioni che portano per un movimento quasi involontario il gregge al pascolo tutte le sere.
Ecco qui forse troviamo l’unico vero punto di contatto tra cucina e arte, in effetti nel mondo dell’arte avviene esattamente l’identica cosa , si conosce il critico o il gallerista giusto e il gioco è fatto.
Quanti ottimi artisti rimangono nell’anonimato pur avendo i numeri e la stoffa e quanti senza l’una né l’altra agganciano “la situazione” propizia che gli spiani la strada del successo alle loro croste?
Ci sarebbe da dire a onor del vero che quando si tratta di immettere qualcosa in bocca masticare e digerire bisognerebbe stare più attenti, ma si sa, la qualità da che mondo è mondo si paga.
Quindi se ci sono pochi soldi in giro, no
n sia mai fare selezione, uscire una volta di meno ma scegliere chi offre davvero un vantaggioso rapporto qualità/prezzo, piuttosto abbasso la qualità e ingozziamoci da far paura due-tre volte a settimana nel locale pieno di gente, che ci fa sentire meno soli e sfigati.
Ormai sentiamo parlare di cucina neorealista, cucina molecolare e quant’ altro riescano ad inventarsi i nostri illustri critici gastronomici.
Nel film Ratatouille (che consiglio a tutti di andare a vedere per lo studio attento dei valori e delle realtà di una cucina tipo) Anton Ego, il più potente critico di cucina di tutta Parigi, riesce a creare e distruggere
un ristorante con un semplice articolo. La vista del suo volto cupo e privo di colore crea disagio perfino nei cuochi-celebrities, gli chef sono così terrorizzati all’idea di rendere scontento “il truce mangiatore”, che nessuno cambia menù senza il suo consenso.
Frase d’impatto che troviamo nel film e che ci riporta la nostro discorso è: ” vorrei della prospettiva….che vino mi consiglia di abbinare con della prospettiva?”

Eppure non siamo tanto lontani dalla realtà, le prospettive, le escalation, le verticali di gusto, sono termini che ormai fanno parte del gergo dei gourmand della domenica.
Certo non sto qui a criticare, lungi da me, il lavoro apprezzabilissimo dei grandi maestri, dico solo che c’è bisogno di un po’ di chiarezza.

Va intanto detto (ritornando al discorso dell’approccio col cibo) che in questi ristoranti si fa “ricerca” gastronomica, quindi del tutto insindacabile la scelta di materie prime e quantità delle degustazioni, rimane anche qui il solito dilemma: piace o non piace?
C’è da dire però che anche se la società cambia e i gusti delle persone anche, sarà molto difficile far cambiare alla gente la percezione del cibo inteso come icona.
Quanti di noi, da ragazzini, hanno sfogliato un libro di cucina, magari con titoli del tipo “La cucina della nonna”, e non hanno avuto un fremito davanti alla figura
a colori intera tra tante pagine di ricette ingiallite e inutili, che però profumavano di cannella…
Di una torta pan di spagna con la crema e ricoperta di acin
i d’uva, bianchi, e neri, disposti con quella cura e pazienza di cui solo “le nonne” ne erano le assolute detentrici?
O per quei brasati e stracotti sapientemente adagiati su vassoi atti a contenerne anche il contorno, (solitamente delle patate novelle doratissime) laddove anche la forma degli alimenti era ancora tutta “nature”, senza luci a spot, gel lucidanti e photoshoppate? (un po’ come le vecchie foto della Loren in bikini con le ascelle au naturel paragonata con l’ultima trans lucida e scolpita che fa la testimonial di un qualchecosa…)

Quei, teneri, ingenui piatti da portata del servizio buono poggiati sulla tovaglia del corredo tutta trine e merletti, la scelta della luce per la foto quasi sempre giallastra del primo pomeriggio, quelle buone cose di cattivo gusto che farebbero tornare il colore sul viso del più perfido Anton Ego.
Solitamente il fremito alla vista dei cosciotti ingialliti era accompagnato da un brusco brontolio dello stomaco e da un aumento della salivazione.
Immaginare ora la stessa scoperta, lo stesso ritorno ai primordiali istinti, parlando di una proiezione mentale del cibo dove, in una sfera di plastica, giace una tartare di b
ranzino da agitare per favorirne la fuoriuscita dei profumi prima di degustare…
mi darete atto che almeno a livello pecettivo è più difficile collegarlo immediatamente al “buono” semmai al…”proviamo”.

A questo va aggiunto che i media spesso non aiutano a far chiarezza anzi: il nostro sistema di comunicazione dopo averci detto come vivere, con che macchina andare a fare la spesa, che musica ascoltare, che quadri acquistare, ci consiglia fermamente come mangiare e quanto.
Internet, riviste, enciclopedie, corsi di cucina per principianti-chic e soprattutto il proliferare incontrollabile di programmi TV e satell
itari stanno inesorabilmente stravolgendo, se non il modo di approcciarsi col cibo (tanto la fame prima o poi si fa sentire…), quanto quello di concepirlo, ma facendo grossissime confusioni e spiazzando la gente, soprattutto chi, sono fermamente convinto, ha appreso cos’è una ratatouille solo dopo aver visto il film del topo-chef.
I più fortunati tra questi, già lo sapevano perché erano stati attenti ad una puntatona della prova del cuoco, altro esempio di cavoli a merenda e cucina tra il suggest
ivo e l’assurdo.

Un po’ di chiarezza quindi, a mio avviso, per evitare di precipitare in una società gastronomicamente schizofrenica.
Intanto più attenzione per la tradizione, intesa come valore culturale da salvaguardare, un occhio più attento verso i giovani chef oltre agli input di Ferran Adrià e della sua cucina molecolare che esce dai fornelli per approdare direttamente nei musei e spazi espositivi più importanti del mondo dell’arte contemporanea.
Bisogna riscoprire la manualità di certe sfogline emiliane e il modo in cui tirano la sfoglia col matterello così come le massaie salentine producono orecchiette e maccheroncini “fatti in casa” con i vecchi ferri da calza, presidi gastronomici (quelli si) da tutelare!
Come nella musica bisogna conoscere la musica classica per suonare jazz, così nelle arti figurative bisogna saper disegnare per poi approdare all’astrattismo e all’informale.
In tutto bisogna conoscere la forma e l’essenza delle cose per poi stravolgerle.
Rischiamo di perdere le nostre radici culinarie nel giro di pochi anni.
Iniziando dalle nuove generazioni di operatori del settore per finire poi all’utente finale.
Altro soggetto che ha bisogno di tutela e che invece e brancola nel buio tra piatti light, torte della nonna, tradizione, osteria, trattoria, trattoria tipica d’alto livello, ristorante, ristorante pizzeria, ristorante di livello, guide gastronomiche (a pagamento e non) burger king, steak house…e tutta una sequela di pub e ritrovi per giovani in cui si fa “ristorazione”, con codici numerici per piatti standardizzati e sempre uguali a se stessi.
Non è così che si fa cultura gastronomica.
Chiarezza quindi, ma la chiarezza dobbiamo farla dentro noi stessi recuperare un po’ di capacità di discernimento!
Nel pub è meglio andarci a bere una birra, semmai farsi confezionare un panino, se poi nel pub irlandese è previsto dal menù un pane di segale con salmone da accompagnare a birra scura ancora meglio.
In pizzeria scegliamo quella col forno a pietra che usi materie prime a nostro avviso fresche in cui non dobbiamo sentirci dei marziani se chiediamo la pizza classica con della bufala (certificata) e del basilico fresco in uscita.
Che le steak-house usino carni certificate e sappiano cos’è una steak house e non abbiano impiegato universitari dietro le cucine che fino al giorno prima confezionavano panini.
Che la cucina etnica non esiste!!! Il goulash lo mangio bene il ungheria così come i cinesi hanno inventato una pseudo-cucina-italo-cantonese che loro non assaggerebbero mai.
Ricordo a tal proposito una richiesta fatta a una simpaticissima cameriera cinese quando nel suo ristorante le chiesi delucidazioni su una pietanza: mi propose la “calne ai tle cololi” e alla mia domanda: mi scusi che tipo di carne? Rispose col sorriso che ancora ricordo “…calne!!!”
Che la cucina fusion è una trovata divertente, ma pur sempre una trovata.
Che trattoria ed osteria siano termini reali e non ingannevoli (una trattoria anni fa era un ritrovo per amanti della cucina casereccia e l’osteria era il luogo per la mescita del vino dove l’oste ci offriva piccoli assaggi per accompagnare).
Che esistono ancora i ristoranti, quelli dove trovi persone che hanno gran rispetto per la tradizione e un occhio attento per la novità, dove ci sono ancora professionisti che cercano di capire le tue esigenze e sono soddisfatti solo se sei davvero soddisfatto come fruitore dei loro servizi.
Non hanno investito in pizzeria e in piacionerie d’accatto ma in scelte di qualità, sono a volte intimi, a volte estroversi, hanno una personalità tutta da capire da scoprire, a volte è la stessa personalità del ristoratore che ha investito tutti i suoi mezzi per realizzare il suo sogno. Andrebbero a mio avviso (e non credo di essere di parte) incentivati e soprattutto frequentati di più se ci si aspetta qualcosa da una cena fuori: un piatto di affettati e una mozzarella o un panino possono andar bene al pub o in casa propria.
Il problema principe di questi ristorantini ci appare evidente alla luce di tutte le considerazioni fatte.
E i tanti chef artisti che li occupano fanno ogni giorno i conti con l’eterna equazione:

Più qualità nel piatto = meno ricavo e più spesa.

Meno qualità = più ricavo e meno spesa e se si è furbi il ristorante sempre pieno.

Che tristezza.
Quanto è difficile fare cultura gastronomica, abituare un cliente ad assaggiare un piatto particolare, consigliargli un vino, fare la spesa, sperare che abbia successo una rivisitazione di un piatto quando l’utente finale è bombardato dai media che lavorano ai fianchi…
Un esempio su tutti Bruno Vespa e le sue crociate: “patto per la pizza:pizza e birra a 7 euro” e sembra che sia pronto anche il “patto per i ristoranti: antipasto primo secondo dessert e vino a 10 euro”…
Se a qualcuno è capitato di scorgere Bruno Vespa in una pizzeria o in un ristorante a prezzo fisso me lo faccia sapere.
Apriamo gli occhi ancor prima di spalancare la bocca, magari usciamo una volta in meno a mangiare ma quando lo facciamo scegliamo la qualità (che non significa solo svenarsi in ristoranti stellati)

Oppure… buon codice 014 a tutti.

LO ZEN E L'ARTE DI SAPERSI PROMUOVERE

Nel migliore dei mondi possibili un ristorante è un posto accogliente e pulito, in cui si mangia e si viene serviti discretamente, bene o benissimo (a seconda del proprio portafoglio).
Un luogo in cui ci si reca per, a seconda dell’umore, deliziare il proprio palato con i piatti dell’infanzia o per sperimentare sapori sconosciuti o inattesi.
Nel migliore dei mondi possibili al ristorante ci si va per mangiare, e ci si aspetta di farlo bene.
Il ristoratore che rispetta il cliente e lavora con passione vedrà il suo piccolo gioiello prosperare, i recensori delle guide gastronomiche giungere a frotte come le trote in primavera, non avrà bisogno di politicanti, pr improvvisati e pseudo-gastronomi maneggioni per promuovere il suo sudato lavoro con attività e compromessi che ben poco hanno a che fare con l’arte culinaria.Questo, nel migliore dei mondi possibili… ma in Italia invece che cosa succede?
In Italia spesso succede questo….

1 LOUNGE-MINIMAL-CHIC-WINE-SUSHI-BAR-OPEN-RESTAURANT

Un architetto, un avvocato e un amico senatore/parlamentare/assessore/ecc. decidono di aprire un ristorante. Nessuno dei tre ha la minima idea di come sia fatta una cucina o come si prepari un uovo in tegamino, ma che importa?
Quello che conta sono le pubbliche relazioni! Si mette su il locale, disegnato dal socio architetto che riproporrà il duemillesimo “minimal-chic-wine-sushi-bar-open restaurant-lounge-vattelappesca” con scomodissime sedie in plastica e pelle di koala (ma sono di design!) luce sepolcrale e l’immancabile atmosfera da Sushi bar che fa tanto figo.


Una settimana prima dell’apertura, i nostri prodi si ricorderanno che in un ristorante servono cuochi e camerieri, che disdetta! Ce n’eravamo dimenticati…
Via al casting delle cameriere, rigorosamente under 25 e tg 40, meglio se alla prima esperienza così ci si prende il merito di aver scovato una simile chicca!

Per i cuochi ci pensa l’amico politicante, ha proprio un paio di persone a cui deve un favore, c’hanno il figlio/nipote che ha fatto l’alberghiero e una stagione a Rimini, quindi sono perfetti, no? Sala e cucina sistemate.
Il menù lo fa l’avvocato che ha viaggiato tanto: insalatone, filetteria, primi piatti affogati nella panna, un po’ di fusion così sembra di stare a New York, le fettuccine di mia nonna che erano tanto buone, e poi cocktails, aperitivi e vini, tanti vini (poco importa che le cameriere-veline non sanno aprire decenteme
nte un bottiglia o versare il vino come si deve) i nostri amici, quelli che non sono iscritti a tango o capoeira, hanno fatto tutti il corso di avvicinamento al vino, quindi ci vogliono almeno 400 etichette per iniziare, esticazzi.
Arriva la sera dell’inaugurazione: un evento! Un successone! Mai vista tanta gente che conta tutta insieme! I fingers food erano freddi e pessimi, i cocktails annacquati, il sushi avariato, ma non se n’è accorto nessuno….


N.d.e. questo locale farà furore per i primi 6 mesi, dopo verrà frequentato da sfigati che aspirano a farsi vedere nei posti “gi
usti”, poi verrà introdotta la pizzeria, lo schermo al plasma per le partite, via via si trasformerà sempre di più in un pub: a due anni dall’apertura le sedie di design verranno sostituite da quelle impagliate del Mercatone Uno.
L’avvocato, l’architetto e il politicante hanno provveduto a venderlo ad uno sprovveduto dopo i primi 4 mesi dall’apertura.


Continua….


By La Moglie del cuoco


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