N.B. In questo Blog non si parla, se non accidentalmente e per dirne peste e corna, di Trendy Glamorous Fashion Restaurants, Non troverete recensioni dell'ultima borsetta firmata, della tale poltrona di design o 10 post sulle ciabatte più IN per andare in Beauty Farm.
Ma se:
- Il Food lo chiamate ancora cibo
- Il vino lo bevete senza prima far ruotare ossessivamente il bicchiere per 5 minuti
- Al ristorante ci andate solo per mangiare bene e stare con gli amici
- Le guide gastronomiche le leggete gratis in libreria
- Avete comprato almeno una volta le mutande all'Oviesse

Forse questo Blog fa per voi.

domenica 6 aprile 2008

"LA CUCINA POVERA"... (DI SPIRITO?)





Quella
salentina è una cucina povera, fatta di prodotti genuini: il pane casereccio cotto nei forni in pietra, l’olio per condirlo, un piatto di purè di fave , cicorie selvatiche …Prodotti indubbiamente poco costosi, tante verdure, il pesce (freschissimo, data la vicinanza ai due mari) preparato in modi semplici.Una cucina che è sinonimo di rispetto per la materia prima, le carni esibite in macelleria anch’esse senza voli di fantasia: il maiale per il sugo con cui condire le orecchiette, la salsiccia paesana, gli involtini di interiora di agnello per la brace, la carne equina (poco costosa anch’essa) per lo spezzatino (i famosi “pezzetti” con sugo piccante) il “muscolo”…per le fettine di tutti i giorni.
Va da se dunque l’appellativo “povera” ma mi risulta difficile però pensare che nel Salento in passato ci fossero solo i contadini: e i padroni delle loro terre?
E latifondisti?
Nei loro ricevimenti a palazzo erano soliti servire orecchiette e purè di fave e cicorie o avevano altre abitudini alimentari?
Da una serie di ricerche viene fuori che le famiglie della borghesia salentina erano solite avere nella servitù uno o più cuochi siciliani o partenopei,
assoldati per preparare manicaretti ben diversi dalla cucina povera del volgo.
I cavalli di battaglia di questa cucina borghese erano il sartù di riso, la galantina di pollo, l’arrosto alla genovese, la royal… piatti raffinati di artusiana memoria di cui non c’è più traccia nei ristoranti del Salento.

E da una riflessione più attenta è facile concludere che in tutte le regioni d’Italia ci sia una “cucina povera” ma non “povera di spirito” come quella salentina.
Un esempio può
essere il semplice “uovo al tegamino” su cui i toscani da tempi immemorabili affettano il loro tartufo.
Piatto povero, ma condito di fantasia e naturalmente raffinato.
Cos’è successo in puglia e nel Salento?
Perchè nessuno ha mai provato ad affettare del tartufo sul purè
di fave???
Visto che ora di tartufo se ne trova in abbondanza anche nelle campagne del leccese.
Ma soprattutto dove sono finiti i piatti dei signori? Spariti!
Si è scelto di dire che la cucina salentina è povera e di portarla avanti così.
Con grande gioia per le massaie improvvisatesi ristoratrici.

Qualcuno dice (e non mi sento di dargli torto) che la cucina salentina nei ristoranti non esiste: si mangia bene solo a casa di qualche massaia.
Malgrado spuntino come funghi trattorie caserecce sembra proprio non si riesca ad individuare una cucina (tipica appunto), forse perché
la tipologia dei piatti risulta un po’ astratta, ridondante, sempre uguale a se stessa e con pochi voli di fantasia.
Per non parlare dell’ eccesso di carne d’angus nei menù dei più rinomati ristoranti salentini!
Angus salentino???



Ma si sa, la globalizzazione a volte acceca e ci ritroviamo tutti schiavi dell’angus, specialmente noi salentini che non abbiamo idea di cosa sia veramente una bistecca o di un pezzo di carne qualsiasi che sia stato cotto bene (non necessariamente bencotto, che è un’altra cosa) a dispetto della vera cultura della carne , della sua frollatura ecc..

Tutta la cucina salentina potrebbe ridursi in una degustazione unica… ci proviamo

Entrèe

Pittule calde ( storicamente era un piatto costituito da pasta lievitata e fritta tipico del natale, di S.martino e dell’immacolata) oggi lo troviamo in tutti i ristoranti salentini in tutti i periodi dell’anno, sempre lo stesso: le pittule

Oppure le friseddhe d’orzo o di grano condite (nella migliore delle ipotesi) con pomodori di pendola e sott’oli piccanti.

Antipasto

Misto mare e terra (giustificabilissimo visto che l’antica Messapia si estende tra due mari ed ha la fortuna di aver sempre salvaguardato “l’orticello genuino”) ma abbondante troppo abbondante ovunque i ristoratori fanno a gara.
E quindi si inizia con peperoni fritti, fagioli, polpo in “pignata” (varie preparazioni in pignata nella cucina salentina: le massaie avvicinavano questo recipiente di terracotta al fuoco del camino e andavano a lavorare nei campi, al ritorno il fuoco lento del camino aveva fatto il suo dovere, oggi la pignata è una padella di alluminio su una cucina professionale, ne è rimasto solo il nome), le fritturine di mare e di terra, pesciolini fritti (fracaglia) e crocchette di patate e pecorino (ovviamente sardo) le immancabili polpettine di cavallo, e poi i
carpacci di spada, di salmone (???), le alici marinate, un assaggino di parmigiana (quella salentina con polpettine e uovo sodo e mortadella al suo interno), e poi ancora del formaggio fresco non deve mancare e le focaccie con le verdure, con la cipolla…la peperonata… le cozze, in sautèe e gratinate…la pitta di patate…
L’immancabile insalata di mare e le crudità…vongole, fasolari, tartufi di mare ricci e ostriche di profondità crude…per concludere l’antipasto…
Inutile dire che a questo punto ci vorrebbe un bel caffè ma siamo solo all’antipasto e fidatevi più è abbondante e più
il ristorante è apprezzato dal salentino medio.
Gli abbiniamo un vino a questo antipasto? Io non credo, le mie papille impazzite non riescono a
pensare ad un vino che possa avvicinarsi a tanti sapori differenti, ma direi un rosato, la puglia è terra di rosati …

La degustazione potrebbe continuare con tre piccoli assaggi per la terra, come prima portata:

ciceri e tria
sagne n’cannulate cu li pimmidori scattarisciati
orecchiette con le polpettine di cavallo (e dagli…) o col sugo di maiale
variante”cu l’agnellu fuciutu” con l’agnello che in realtà non c’è ma ne è rimasto l’odore nel sugo di pomodoro (furbizia contadina…)

sconsiglio la parmigiana, potrebbe essere fatale una mattonella di quell’assaggino dell’antipasto, e sconsiglio anche la lasagna alla leccese, anch’essa senza la “volgare” besciamella ma con il solito uovo sodo, polpettine e l’immancabile mortadella, qui chiamata porchetta (non si è mai capito perché..)

La degustazione potrebbe iniziare invece con tre piccoli assaggi dal mare, come prima portata:

spaghetti con le cozze (in bianco o rosso)
orecchiette con fagioli e cozze
e il mitico risotto alla pescatora (sulla vera cucina dei pescatori diremo poi)
Tajeddha, ovvero tiano di zucchine, riso cozze e patate (stesso principio della pignata, con il riso che entra crudo e cuoce lentissimo con il resto.)

Per i secondi dalla terra:

Pezzetti di cavallo
Agnello con le patate
Grigliata mista (dove non deve mancare l’elemento caratterizzante anche se lo troviamo identico nella cucina umbra: l’involtino di frattaglie di agnello)

Per i secondi del mare

Spigole e orate alla griglia o in manto di patate
Pesce azzurro in quantità, spesso fritto: la paranza.

Dolci di pasta di mandorla (meno dolce e più gustosa della martorana siciliana), spumoni, pasticciotti leccesi, mustazzoli, pitteddhe con la perata, dolcetti della sposa, cupeta, torte e crostate varie.

Non mi viene in mente altro che sia caratterizzante della cucina salentina e soprattutto molte di queste portate entrano a far parte della tradizione italiana e non assimilabili a quella prettamente salentina, come ad esempio la grigliata mista, il risotto alla pescatora, o il banale, anche se buono, spaghetto con le cozze o certi accostamenti tra mare e terra.
Rimangono le orecchiette e il purè di fave con cicorielle
i pezzetti di cavallo e qualcos’altro: troppo poco per parlare di una vera grande tradizione di cucina regionale.
Per esistere una cucina tipica ha bisogno di una cultura alla base che la supporti e non di un invenzione mediatica da vendere ai turisti: il Salento è stato preso, confezionato e venduto in tutto il mondo in troppo poco tempo e questi sono i risultati.
Prima che salti fuori l’”angus salentino” (bovino nostrano nobilitato da un nome trendy nella maggior parte dei ristoranti… ) quindi, facciamo ricerca, cerchiamo di capire da cosa nasce la nostra cucina e cosa ci siamo persi per strada.
Una volta mi trovai ospite di alcuni pescatori
a pranzo: mangiavano la “ventricella”.
Avendo prodotto quantità industriali di tonno sott’olio per il loro ristorante riutilizzavano frattaglie, cuore fegato e bottarga dei tonni soffritte con della cipolla e una foglia di alloro e un pizzico di sale. Uno spezzatino di interiora davvero sublime!
Così come, in un'altra occasione, vidi dallo stesso pescatore prendere una seppia ancora viva , togliergli solo
l’osso e lasciare all’interno tutte le interiora e poggiarla su una griglia nel forno.
A cottura ultimata, tagliarla
in pezzi grossolanamente rompere nel taglio la vescica col nero di seppia e condirla con olio, prezzemolo e un po’ di sale.
Altra squisitezza….quando gli chiesi il perché queste pietanze non venissero messe sul menù mi rispose che non sarebbero state capite dalla tipologia di clientela di quel ristorante, che quella era la cucina per i poveri pescatori e, guardandomi allibito per la mia insistenza,
mi disse: “qui vogliono gli astici, le aragostelle locali, lo spaghetto con le cozze e l’immancabile piatto forte (per consumo medio davvero, vagonate a quanto pare) il cocktail di gamberetti…ah come lo facciamo noi!!!” Mi disse veementemente…
Mi resi conto dal suo sguardo e dal modo con cui portava avanti la discussione che quello a suo parere era un ristorante per “signori” (il classico ristorantone da matrimoni sul mare con 400 coperti, dove l’unica idea di qualità la esprime il pesce sul carrello, freschissimo, ma con attese estenuati, chiasso, comitive bambini scalmanati che corrono tra camerieri sudati e maleodoranti, pizze ai frutti di mare e cattivo odore di frittura stantia in tutto il locale).
Secondo lui, quelli non erano piatti adeguati ai palati sopraffini degli avventori del suo locale insomma.
Qualcosa di simile
pensavo c’è nella cucina spagnola: il calamaro intinto, anch’esso lasciato cuocere intero e con le sue interiora.
Pensavo alle dominazioni spagnole in puglia quindi, e ai segreti che ancora si possono nascondere dietro una cucina, e del perchè la cucina salentina non sia l’espressione, come quella siciliana, delle varie dominazioni, terra tra due mari, terra conquistata
e riconquistata e cento volte ancora da conquistare.
La ristorazione salentina ha visto il suo boom negli anni ‘80, i primi ristoratori avevano piazza facile, un mercato tutto da scoprire. Il secondo, effimero, boom economico seppur lentamente si
fece sentire anche nel Salento e per le classi un po’ più agiate la sortita al ristorante rappresentava l’abbuffata.
Il mangiare fino all’inverosimile…si andava al ristorante solo per l’occasione speciale, il matrimonio era una di queste e i ristoratori, approfittando della scarsa cultura culinaria degli avventori, scongelavano quantità industriali di pesce e lo vendevano per fresco e il pranzo nuziale era una sequela di pietanze senza alcun senso che spaziavano dal mare alla terra,
i primi porcini, (Salento terra di porcini???) i primi risotti (???) ogni “mangiata” era una scoperta per questo pubblico così incolto.
Via via si arriva ai giorni nostri, alcuni ristoratori sono ancora lì, non hanno modificato molto del loro modo di fare ristorazione hanno semplicemente trasferito i menù dei matrimoni di un tempo ai menù à la carte di tutti i giorni, aggiungendo un po’ di fumo negli occhi .
Continuano ad avere seguito a livello locale, avendo fatto tanti quattrini
sono oramai in politica e la politica aiuta sempre ad avere un ristorante pieno.
Trappole per sfortunati turisti e simbolo gastronomico di riferimento ancora oggi per la stragrande maggioranza del pubblico locale che disprezza (pensate un po’) i ristorantini tipici considerando appunto questi ultimi
come trappole per turisti…
In ogni casa del salentino medio c’è una mamma o una nonna che ancora sa cucinare un purè di fave meglio che al ristorante.!!!

Ah, Salento… terra di contraddizioni…

Ma allora mi chiedo, se la cucina salentina nei ristoranti non esiste, abbiamo forse perso un pezzo di cultura gastronomica rinnegando a tavolino la cucina dei padroni e tenendoci invece la cucina povera che raramente però apprezziamo fino in fondo?
Cosa offriamo di noi ai turisti? E a noi cosa piace davvero?
Per quale malinteso senso di colpa storico rinneghiamo l’opulenza borbonica delle tavole borghesi in favore del desco contadino, quando la Puglia non ha mai dato prova di una forte cultura proletaria come, ad esempio, in Emilia Romagna?
Se dovessimo scegliere un piatto, uno qualsiasi, qualcosa da mangiare, da degustare, che ci faccia sognare, cosa proporremmo a noi stessi e al turista?

Chiediamocelo.

Perché, se fossi toscano, risponderei senza pensarci: la ribollita o la pappa al pomodoro o le pappardelle al ragù di cinghiale, il maialino di cinta senese al forno, la panzanella, il baccalà all’isolana, ecc. ecc…
Troverei sicuramente qualcosa che mi contraddistingue,
che mi dice “sono quello che mangio”.
Perchè non mi sento rappresentato da nessun piatto della cucina pugliese, tanto meno da quella salentina nella fattispecie?
Sarà che le orecchiette con le cime di rapa (del barese), se pur buone, non possono rappresentarmi in quanto salentino e soprattutto diciamolo, non lasciano senza fiato?

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