N.B. In questo Blog non si parla, se non accidentalmente e per dirne peste e corna, di Trendy Glamorous Fashion Restaurants, Non troverete recensioni dell'ultima borsetta firmata, della tale poltrona di design o 10 post sulle ciabatte più IN per andare in Beauty Farm.
Ma se:
- Il Food lo chiamate ancora cibo
- Il vino lo bevete senza prima far ruotare ossessivamente il bicchiere per 5 minuti
- Al ristorante ci andate solo per mangiare bene e stare con gli amici
- Le guide gastronomiche le leggete gratis in libreria
- Avete comprato almeno una volta le mutande all'Oviesse

Forse questo Blog fa per voi.

domenica 6 aprile 2008

SCELGO LO 014

Se è vero che, come diceva qualcuno, la vera arte è il mercato dell’arte, così la vera gastronomia risiede lì dove si è furbi, grandi comunicatori e portatori sani di pubblico pecoresco.
In buona sostanza non è lo chef artista o il più prosaico cuoco che fa il successo del suo locale ma una rete di pubblic
he relazioni che portano per un movimento quasi involontario il gregge al pascolo tutte le sere.
Ecco qui forse troviamo l’unico vero punto di contatto tra cucina e arte, in effetti nel mondo dell’arte avviene esattamente l’identica cosa , si conosce il critico o il gallerista giusto e il gioco è fatto.
Quanti ottimi artisti rimangono nell’anonimato pur avendo i numeri e la stoffa e quanti senza l’una né l’altra agganciano “la situazione” propizia che gli spiani la strada del successo alle loro croste?
Ci sarebbe da dire a onor del vero che quando si tratta di immettere qualcosa in bocca masticare e digerire bisognerebbe stare più attenti, ma si sa, la qualità da che mondo è mondo si paga.
Quindi se ci sono pochi soldi in giro, no
n sia mai fare selezione, uscire una volta di meno ma scegliere chi offre davvero un vantaggioso rapporto qualità/prezzo, piuttosto abbasso la qualità e ingozziamoci da far paura due-tre volte a settimana nel locale pieno di gente, che ci fa sentire meno soli e sfigati.
Ormai sentiamo parlare di cucina neorealista, cucina molecolare e quant’ altro riescano ad inventarsi i nostri illustri critici gastronomici.
Nel film Ratatouille (che consiglio a tutti di andare a vedere per lo studio attento dei valori e delle realtà di una cucina tipo) Anton Ego, il più potente critico di cucina di tutta Parigi, riesce a creare e distruggere
un ristorante con un semplice articolo. La vista del suo volto cupo e privo di colore crea disagio perfino nei cuochi-celebrities, gli chef sono così terrorizzati all’idea di rendere scontento “il truce mangiatore”, che nessuno cambia menù senza il suo consenso.
Frase d’impatto che troviamo nel film e che ci riporta la nostro discorso è: ” vorrei della prospettiva….che vino mi consiglia di abbinare con della prospettiva?”

Eppure non siamo tanto lontani dalla realtà, le prospettive, le escalation, le verticali di gusto, sono termini che ormai fanno parte del gergo dei gourmand della domenica.
Certo non sto qui a criticare, lungi da me, il lavoro apprezzabilissimo dei grandi maestri, dico solo che c’è bisogno di un po’ di chiarezza.

Va intanto detto (ritornando al discorso dell’approccio col cibo) che in questi ristoranti si fa “ricerca” gastronomica, quindi del tutto insindacabile la scelta di materie prime e quantità delle degustazioni, rimane anche qui il solito dilemma: piace o non piace?
C’è da dire però che anche se la società cambia e i gusti delle persone anche, sarà molto difficile far cambiare alla gente la percezione del cibo inteso come icona.
Quanti di noi, da ragazzini, hanno sfogliato un libro di cucina, magari con titoli del tipo “La cucina della nonna”, e non hanno avuto un fremito davanti alla figura
a colori intera tra tante pagine di ricette ingiallite e inutili, che però profumavano di cannella…
Di una torta pan di spagna con la crema e ricoperta di acin
i d’uva, bianchi, e neri, disposti con quella cura e pazienza di cui solo “le nonne” ne erano le assolute detentrici?
O per quei brasati e stracotti sapientemente adagiati su vassoi atti a contenerne anche il contorno, (solitamente delle patate novelle doratissime) laddove anche la forma degli alimenti era ancora tutta “nature”, senza luci a spot, gel lucidanti e photoshoppate? (un po’ come le vecchie foto della Loren in bikini con le ascelle au naturel paragonata con l’ultima trans lucida e scolpita che fa la testimonial di un qualchecosa…)

Quei, teneri, ingenui piatti da portata del servizio buono poggiati sulla tovaglia del corredo tutta trine e merletti, la scelta della luce per la foto quasi sempre giallastra del primo pomeriggio, quelle buone cose di cattivo gusto che farebbero tornare il colore sul viso del più perfido Anton Ego.
Solitamente il fremito alla vista dei cosciotti ingialliti era accompagnato da un brusco brontolio dello stomaco e da un aumento della salivazione.
Immaginare ora la stessa scoperta, lo stesso ritorno ai primordiali istinti, parlando di una proiezione mentale del cibo dove, in una sfera di plastica, giace una tartare di b
ranzino da agitare per favorirne la fuoriuscita dei profumi prima di degustare…
mi darete atto che almeno a livello pecettivo è più difficile collegarlo immediatamente al “buono” semmai al…”proviamo”.

A questo va aggiunto che i media spesso non aiutano a far chiarezza anzi: il nostro sistema di comunicazione dopo averci detto come vivere, con che macchina andare a fare la spesa, che musica ascoltare, che quadri acquistare, ci consiglia fermamente come mangiare e quanto.
Internet, riviste, enciclopedie, corsi di cucina per principianti-chic e soprattutto il proliferare incontrollabile di programmi TV e satell
itari stanno inesorabilmente stravolgendo, se non il modo di approcciarsi col cibo (tanto la fame prima o poi si fa sentire…), quanto quello di concepirlo, ma facendo grossissime confusioni e spiazzando la gente, soprattutto chi, sono fermamente convinto, ha appreso cos’è una ratatouille solo dopo aver visto il film del topo-chef.
I più fortunati tra questi, già lo sapevano perché erano stati attenti ad una puntatona della prova del cuoco, altro esempio di cavoli a merenda e cucina tra il suggest
ivo e l’assurdo.

Un po’ di chiarezza quindi, a mio avviso, per evitare di precipitare in una società gastronomicamente schizofrenica.
Intanto più attenzione per la tradizione, intesa come valore culturale da salvaguardare, un occhio più attento verso i giovani chef oltre agli input di Ferran Adrià e della sua cucina molecolare che esce dai fornelli per approdare direttamente nei musei e spazi espositivi più importanti del mondo dell’arte contemporanea.
Bisogna riscoprire la manualità di certe sfogline emiliane e il modo in cui tirano la sfoglia col matterello così come le massaie salentine producono orecchiette e maccheroncini “fatti in casa” con i vecchi ferri da calza, presidi gastronomici (quelli si) da tutelare!
Come nella musica bisogna conoscere la musica classica per suonare jazz, così nelle arti figurative bisogna saper disegnare per poi approdare all’astrattismo e all’informale.
In tutto bisogna conoscere la forma e l’essenza delle cose per poi stravolgerle.
Rischiamo di perdere le nostre radici culinarie nel giro di pochi anni.
Iniziando dalle nuove generazioni di operatori del settore per finire poi all’utente finale.
Altro soggetto che ha bisogno di tutela e che invece e brancola nel buio tra piatti light, torte della nonna, tradizione, osteria, trattoria, trattoria tipica d’alto livello, ristorante, ristorante pizzeria, ristorante di livello, guide gastronomiche (a pagamento e non) burger king, steak house…e tutta una sequela di pub e ritrovi per giovani in cui si fa “ristorazione”, con codici numerici per piatti standardizzati e sempre uguali a se stessi.
Non è così che si fa cultura gastronomica.
Chiarezza quindi, ma la chiarezza dobbiamo farla dentro noi stessi recuperare un po’ di capacità di discernimento!
Nel pub è meglio andarci a bere una birra, semmai farsi confezionare un panino, se poi nel pub irlandese è previsto dal menù un pane di segale con salmone da accompagnare a birra scura ancora meglio.
In pizzeria scegliamo quella col forno a pietra che usi materie prime a nostro avviso fresche in cui non dobbiamo sentirci dei marziani se chiediamo la pizza classica con della bufala (certificata) e del basilico fresco in uscita.
Che le steak-house usino carni certificate e sappiano cos’è una steak house e non abbiano impiegato universitari dietro le cucine che fino al giorno prima confezionavano panini.
Che la cucina etnica non esiste!!! Il goulash lo mangio bene il ungheria così come i cinesi hanno inventato una pseudo-cucina-italo-cantonese che loro non assaggerebbero mai.
Ricordo a tal proposito una richiesta fatta a una simpaticissima cameriera cinese quando nel suo ristorante le chiesi delucidazioni su una pietanza: mi propose la “calne ai tle cololi” e alla mia domanda: mi scusi che tipo di carne? Rispose col sorriso che ancora ricordo “…calne!!!”
Che la cucina fusion è una trovata divertente, ma pur sempre una trovata.
Che trattoria ed osteria siano termini reali e non ingannevoli (una trattoria anni fa era un ritrovo per amanti della cucina casereccia e l’osteria era il luogo per la mescita del vino dove l’oste ci offriva piccoli assaggi per accompagnare).
Che esistono ancora i ristoranti, quelli dove trovi persone che hanno gran rispetto per la tradizione e un occhio attento per la novità, dove ci sono ancora professionisti che cercano di capire le tue esigenze e sono soddisfatti solo se sei davvero soddisfatto come fruitore dei loro servizi.
Non hanno investito in pizzeria e in piacionerie d’accatto ma in scelte di qualità, sono a volte intimi, a volte estroversi, hanno una personalità tutta da capire da scoprire, a volte è la stessa personalità del ristoratore che ha investito tutti i suoi mezzi per realizzare il suo sogno. Andrebbero a mio avviso (e non credo di essere di parte) incentivati e soprattutto frequentati di più se ci si aspetta qualcosa da una cena fuori: un piatto di affettati e una mozzarella o un panino possono andar bene al pub o in casa propria.
Il problema principe di questi ristorantini ci appare evidente alla luce di tutte le considerazioni fatte.
E i tanti chef artisti che li occupano fanno ogni giorno i conti con l’eterna equazione:

Più qualità nel piatto = meno ricavo e più spesa.

Meno qualità = più ricavo e meno spesa e se si è furbi il ristorante sempre pieno.

Che tristezza.
Quanto è difficile fare cultura gastronomica, abituare un cliente ad assaggiare un piatto particolare, consigliargli un vino, fare la spesa, sperare che abbia successo una rivisitazione di un piatto quando l’utente finale è bombardato dai media che lavorano ai fianchi…
Un esempio su tutti Bruno Vespa e le sue crociate: “patto per la pizza:pizza e birra a 7 euro” e sembra che sia pronto anche il “patto per i ristoranti: antipasto primo secondo dessert e vino a 10 euro”…
Se a qualcuno è capitato di scorgere Bruno Vespa in una pizzeria o in un ristorante a prezzo fisso me lo faccia sapere.
Apriamo gli occhi ancor prima di spalancare la bocca, magari usciamo una volta in meno a mangiare ma quando lo facciamo scegliamo la qualità (che non significa solo svenarsi in ristoranti stellati)

Oppure… buon codice 014 a tutti.

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